Cavalier Hak: Ex Prefazione

In *Articoli, Cavalier Hak by Hagar Lane

Diego Fusaro mi aveva scritto la Prefazione per Cavalier Hak. Ho aggiunto subito dopo una Nota d’Autore per chiarire il mio pensiero riguardo Neoliberismo e Sovranismo. Poi ho deciso di riportare il mio libro al vecchio splendore, cioè ho eliminato sia la Prefazione di Fusaro che la mia Nota Autore. La Prefazione la riporto solo qui nel blog, e resta bellissima.

Il capitalesimo, una distopia neo-orwelliana

Il testo che il lettore stringe tra le mani è un riuscito romanzo fantasy-storico. Un romanzo che riesce, in forma convincente, a mettere in luce le macroscopiche contraddizioni che attraversano il nostro presente. Lo fa per il tramite di una suggestiva e ben documentata analogia storica: quella con il Medioevo.

L’epoca storica in cui viviamo viene, a tal riguardo, appellata “Nuovo Feudalesimo” e “Capitalesimo”: l’odierna epoca storica della globalizzazione senza frontiere si presenta, allora, come un nuovo feudalesimo, come l’epoca della nuova teologia immanente del “capitalesimo”.

L’analogia è oltremodo efficace ed è, peraltro, diffusa nel dibattito storiografico contemporaneo. Voglio, a tal riguardo, ricordare lo studio del 2013 di Paolo Gila, significativamente intitolato Capitalesimo: il ritorno del feudalesimo nell’economia mondiale.

In effetti, tali e tante sono le analogie tra il Medioevo e l’orizzonte storico della presente mondializzazione che diventa a tutti gli effetti una chiave ermeneutica tra le più feconde il paragone con il passato medioevale. Io stesso, nel mio libro Storia e coscienza del precariato. Servi e signori della globalizzazione (2018), vi ho insistito.

L’odierno scenario ci restituisce l’immagine di un “cattivo universalismo”, che non è più l’universalismo cristiano, ma è quello intimamente nichilistico della forma merce e della sua pretesa di saturare ogni spazio materiale e immateriale, del mondo e della coscienza.

Il mercato stesso diventa una grande teologia, la teologia della disuguaglianza sociale: gli uomini hanno oggi smesso di credere in Dio e hanno preso a credere nel Mercato. Il quale è esso stesso trasfigurato in un monoteismo idolatrico proiettato interamente nel piano dell’immanenza.

Si tratta, a tutti gli effetti, di una religione, sia pure dal cielo vuoto e spopolato: e già Marx parlava, in questo senso, di “religione del libero mercato”, senza neppure ancora aver potuto conoscere i “paradisi fiscali” e la così in auge formula – sempre ribadita dagli economisti, dai politici e dai padroni del discorso – “ce lo chiede il mercato”.

L’epoca del “capitalesimo” è, tra l’altro, l’epoca della rifeudalizzazione dei rapporti sociali. La società tutta torna a essere tripartita, nell’accezione medievale tratteggiata da Adalberone di Laon nella sua opera Carmen ad Robertum regem.

I nuovi bellatores sono oggi gli esponenti della global class dominante. Essi guerreggiano per più ragioni e in più sensi. In primo luogo, perché sono i soli, a rigore, a condurre oggi la guerra di classe: contro i ceti medi e le classi lavoratrici, per il tramite di raggiri bancari, usura a norma di legge e rendita finanziaria che va a speculare sul lavoro vivo. I bellatores, poi, conducono guerre speculative e finanziarie, mediante le leve del debito e del credito, e guerre in senso classico, con bombardamenti e imperialismo rivolti contro i popoli non ancora sottomessi alla globalizzazione del capitalismo, che forse potrebbe essere meglio definita – sempre in tema di analogia con il Medioevo – “glebalizzazione” del “capitalesimo”.

I nuovi laboratores sono, invece, le classi lavoratrici pauperizzate e subalterne, che scontano sulla loro carne viva, quotidianamente, i drammi della “glebalizzazione” e del “capitalesimo”. Sono i precari, principalmente, ossia coloro i quali sono costretti alla “preghiera” (precarius deriva appunto da prex, precis), alla posizione “orante” dinanzi al padrone: non più il proletariato orgoglioso e in lotta, magnificamente raffigurato da Pellizza da Volpedo, bensì il precariato, la massa amorfa dei “servi della glebalizzazione” che subiscono in silenzio il massacro di classe gestito dai bellatores. In tema di analogia con il Medioevo, la corvée diventa oggi lo stage dei precari, costretti al “pluslavoro” e a una flessibilità permanente, esistenziale oltreché lavorativa.

Infine, vi sono gli oratores. Essi coincidono con il nuovo clero postmoderno e nichilista. La sua funzione è la santificazione simbolica del nuovo Dio, ossia del mercato planetarizzato, e dell’ordine sociale rifeudalizzato e ogni giorno più classista su scala cosmopolitica.

In sostanza, l’ufficio fondamentale del clero regolare giornalistico e del clero secolare accademico – si veda l’eccellente studio di Costanzo Preve, Il ritorno del clero (1999) – consiste nel fare sì che i laboratores, anziché ribellarsi all’iniquo ordine del “capitalesimo” e della “glebalizzazione”, lo accettino con ebete euforia o con rassegnato disincantamento, metabolizzando le mappe concettuali e l’impianto categoriale del polo dei bellatores.

La situazione che, in tal guisa, si produce è quella della caverna platonica. E, in effetti, la “glebalizzazione” potrebbe anche plausibilmente concepirsi come una spelonca platonica mondializzata, senza più uno spazio esterno. Al suo interno, gli homines globali – i nuovi cavernicoli – amano le proprie catene e la propria cattività, dacché non sono in grado di immaginare una esteriorità libera: come spiega Platone, si battono unicamente in difesa delle loro catene e contro ogni eventuale liberatore.

Ebbene, il testo presente ci propone, in chiave romanzata, una lettura calzante, piacevole e coinvolgente della “glebalizzazione”: come accade con i romanzi riusciti, è piacevole e, insieme, costringe a pensare. Meglio, a mettere in discussione le categorie dominanti e a pensare altrimenti rispetto all’ordine dato.

In fondo, come ricordava Ernst Bloch, pensare significa sempre oltrepassare: cioè avventurarsi oltre i confini del semplicemente esistente, per scoprire il senso più profondo della realtà. Quest’ultima, infatti, non coincide con ciò che semplicemente c’è. È, invece, la somma di ciò che c’è più ciò che, a partire da ciò che c’è, potrebbe esserci. E che sta a noi tradurre operativamente in atto.

Diego Fusaro